Diversity and Inclusion, la nuova survey Cegos contro la discriminazione

Nonostante le aziende abbiano chiari gli aspetti di diversity and inclusion e quanto possano incidere su benessere e performance, la discriminazione è ancora presente in molte forme tanto che, se dovesse cambiare lavoro, l'84% dei dipendenti (il 90% nel caso degli italiani) sostiene che l’inclusione sarebbe un criterio importante per la scelta.
Diversity and Inclusion

Nonostante le aziende abbiano chiari gli aspetti di diversity and inclusion e quanto possano incidere su benessere e performance, la discriminazione è ancora presente in molte forme tanto che, se dovesse cambiare lavoro, l’84% dei dipendenti (il 90% nel caso degli italiani) sostiene che l’inclusione sarebbe un criterio importante per la scelta.

Diversità e inclusione sono intrinsecamente legate anche al mondo del lavoro. Nonostante le politiche in merito siano considerate in grado di incidere sul benessere delle persone e sulle performance complessive dell’azienda da oltre 6 rispondenti su 10 (sia dipendenti sia HR) e i movimenti di protesta degli ultimi anni abbiano avuto il loro impatto, la strada in concreto da percorrere è ancora lunga.

Come rileva l’ultima survey Cegos, leader internazionale nel settore Learning & Development, condotta su 4.000 dipendenti – di cui 500 italiani – e oltre 400 tra Direttori e Manager delle Risorse Umane – di cui 60 italiani – dal titolo “Diversity and Inclusion nelle aziende: le competenze legate alle sfide di una trasformazione culturale”, infatti, il 63% dei lavoratori ha dichiarato di essere stato oggetto di discriminazione sul luogo di lavoro almeno una volta e l’82% di aver assistito ad almeno una forma di emarginazione perpetrata in primo luogo dai colleghi di pari livello, ma anche dai manager di linea.

Un dato che si ritrova principalmente, secondo i responsabili HR, in riferimento all’età (25%), alle condizioni di salute (19%), al genere (18%), all’aspetto fisico (16%), al livello scolastico e allo status sociale (16%). La discriminazione basata sull’età è particolarmente diffusa anche in Italia (40%), così come quella di genere (27%). Assumono rilevanza anche identità di genere (18% vs 10% a livello globale) e situazione famigliare (17% in Italia contro l’11% su scala internazionale). Tra le forme di emarginazione subita, i dipendenti citano l’aspetto fisico (24% in generale, 27% per gli italiani), seguito da età (23%), opinioni politiche (20%) e genere (18%); tra quelle cui hanno assistito gli italiani il fattore nazionalità è al quinto posto.

Dipendenti ed HR Manager concordano (con percentuali tra il 20% e il 38%) sul fatto che gli episodi di discriminazione si riscontrino principalmente in tre momenti: durante l’assunzione, in fase di promozione e di integrazione. Consapevoli di ciò, per promuovere l’inclusione 3 HR su 4 affermano di applicare politiche di non discriminazione proprio in fase di recruiting (in Italia l’85% utilizza metodi il più possibile oggettivi per valutare le competenze) e per favorirla ulteriormente ritengono utili (con percentuali tra il 74% e l’82%) anche le leve dell’organizzazione del lavoro (più flessibilità o supporto per la genitorialità o in caso di malattie croniche) e della formazione specifica sul tema sensibilizzando tutti gli stakeholder.

Le principali soft skill che un manager dovrebbe sviluppare per essere più inclusivo sono l’empatia e la comprensione, l’ascolto e la tolleranza. In Italia, con il 50%, il primo posto, invece, viene occupato dall’intelligenza emotiva, seguito dall’apertura mentale.

“La discriminazione rimane un tema aperto, nonostante i tentativi a livello normativo e la crescente sensibilità sociale – commenta Chiara Barbieri, D&I Practice Leader di Cegos Italia.  I risultati mostrano quanto le organizzazioni siano influenzate dalle stesse questioni che riguardano la società nel suo complesso e quanto resistano stereotipi e pregiudizi legati alle differenze.  Un impegno molto più proattivo e potente da parte del management aziendale, in particolare in termini di vera sensibilizzazione e formazione, insieme a una visione della Diversity and Inclusion come motore per la crescita e lo sviluppo dell’intera organizzazione, possono essere le chiavi per superare le discriminazioni e consentire la costruzione di culture organizzative orientate alla creazione di valore”.

La survey ha coinvolto 7 Paesi: Brasile, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Portogallo e Spagna. Quasi la metà del campione – sia dipendenti sia HR – opera in organizzazioni fino a 500 dipendenti, un quarto in aziende oltre le 2.000 persone.

Buona consapevolezza in azienda, ma…

I concetti di diversità e inclusione appaiono diffusi: il 71% del campione ha ben chiaro cosa si intenda per diversità, 3 su 4 hanno una visione cristallina sulla tematica dell’inclusione e ritengono che l’organizzazione rifletta la diversità della società, ma solo il 42% dei dipendenti afferma di sentirsi “pienamente incluso”. In questo contesto 1 HR su 2 (il 53% in Italia) si considera “promotore” della diversity all’interno dell’organizzazione. Vi è poi un 43% dei Responsabili delle Risorse Umane che ritiene i manager diretti dei validi alleati per affrontare questi specifici problemi.

Diversity and Inclusion, tante le aree di miglioramento

I comportamenti sessisti sono meno frequenti secondo 6 rispondenti su 10, ma solo il 36% ritiene che le donne si sentano più libere di denunciare e in generale il 67% dei dipendenti (in Italia il 77%) è favorevole alla politica delle quote, così come il 65% degli HR Manager (78% in Italia).

Se una serie di azioni di sensibilizzazione sono già in atto – tra cui manager e dipendenti impegnati personalmente sul tema e processi di integrazione per neoassunti con formazione in materia -, serve però migliorare la comunicazione delle politiche di Diversity and Inclusion, chiaramente definite ed esposte in azienda solo per il 36% dei dipendenti italiani contro il 40% di quelli internazionali. Occorrerebbe, inoltre, favorire una politica “tolleranza zero” nei confronti di discriminazione e molestie per il 43% degli HR Manager (37% in Italia). Per i rispondenti italiani sarebbero importanti anche lo sviluppo di una cultura comune, sottolineata dal 43% degli HR (38% a livello globale) e dal 34% dei dipendenti (32% a livello globale) e un management team che porti i valori dell’inclusione al più alto livello in azienda (43% rispetto al 33% dell’internazionale).

“Crediamo fermamente che le imprese che non oseranno, o non sapranno affrontare questi problemi, perderanno terreno, soprattutto se non terranno conto delle aspettative e delle richieste delle generazioni più giovani in merito – continua Chiara Barbieri -. Sulla base di un mindset ormai predisposto, occorre agire con il supporto degli HR Manager su quattro azioni strategiche per un vero cambiamento: verbalizzare, sensibilizzare, formare e reclutare. Ancora una volta sono in gioco lo sviluppo e la diffusione di competenze capaci di cogliere le sfide di una trasformazione culturale. Non si può aspettare molto: per 9 italiani su 10 (dato superiore all’84% a livello globale) l’inclusione è un criterio importante per valutare un nuovo lavoro. In questo senso D&I ed employer branding saranno sempre più interconnessi in futuro, ma non può essere solo un’operazione di immagine, soprattutto considerando l’impennata delle dimissioni avvenute nell’ultimo anno, spesso motivate dalla ricerca di condizioni più vicine alle proprie aspettative e ai propri valori”.

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