Di recente, due diversi studi hanno dimostrato che lo smart working è stato un vero strumento di business continuity durante l’emergenza pandemica, ma quello “praticato” non è stato lavoro agile, quanto un lavoro da remoto.
Secondo il primo studio del Politecnico di Milano, l’emergenza sanitaria ha imposto un esercizio collettivo di lavoro agile che, durante la prima fase della pandemia, ha portato i dipendenti privati in smart working ed essere quasi 6,58 milioni. Da settembre 2020, nelle grandi imprese private il numero è calato gradualmente fino ad assestarsi a circa 1,67 milioni di lavoratori.
I numeri dimostrerebbero, quindi, come il ricorso allo smart working abbia contribuito a limitare le conseguenze negative dello shock provocato dalla pandemia sulla domanda aggregata e sull’occupazione.
Tuttavia, dalla seconda indagine condotta dall’Istat e pubblicata il 14 dicembre 2020, è emerso come tra le imprese che sono ricorse allo smart working vi sia stato tanto un calo di produttività (del 20% nelle unità con 3-49 addetti, invariata in quelle con più di 50 addetti) quanto un calo dell’efficienza (39% nelle unità con 3-49 addetti e del 20% in quelle con più di 50 addetti) e, da ultimo, conseguenze negative si sono avute sulle relazioni interpersonali dei lavoratori.
Quest’ultimo risultato si può (forse) spiegare riconoscendo come quello praticato nei mesi della pandemia non sia stata un “vero” lavoro agile, declinato rispettandone le finalità previste dalla legge istitutiva (cfr. L. 81/2017), quanto piuttosto uno lavoro da remoto che si è imposto per non fermare tutte quelle attività che potevano essere svolte anche in un luogo differente dall’ufficio grazie agli strumenti informatici.
In poche parole, l’emergenza sanitaria ha costretto i datori a ricorrere, ove possibile, allo smart working, anche quando questa modalità lavorativa non era mai stata prima sperimentata o disciplinata con accordi e policy adeguate. Questo ha, però, comportato un uso delle “strumento” lavoro-agile senza possibilità di esercitare i presupposti di autonomia e flessibilità nella scelta del luogo di lavoro che dovrebbero contraddistinguerlo e senza aver prima avviato un percorso di trasformazione della cultura organizzativa aziendale, dei comportamenti e degli stili di leadership verso approcci più orientati alla responsabilizzazione sui risultati.
Se si rileggono le norme che disciplinano il lavoro agile in Italia, ci si “accorge” che gli scopi perseguiti dal legislatore erano tanto l’incremento della competitività aziendale quanto l’agevolazione della conciliazione dei tempi vita-lavoro (Art. 18, comma 1, L. 81/2017).
Il lavoro agile, inoltre, inteso come modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro e con prestazione eseguita in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, avrebbe avuto quale ordinario “fulcro” l’accordo scritto tra datore-lavoratore. E nell’accordo scritto avrebbero trovato spazio sia le regole per l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, sia la tipizzazione delle forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro (Art. 19, comma 1, L. 81/2017).
Non meno rilevante, l’accordo delle parti è preposto a disciplinare l’esercizio del potere di controllo del datore di lavoro sulla prestazione svolta dal lavoratore all’esterno dei locali aziendali nel rispetto dell’Art. 4 dello Statuto dei lavoratori (Art. 21, L. 81/2017)
Dall’inizio della pandemia, però, il ricorso massivo allo smart working si è reso possibile grazie alla facoltà riconosciuta dai provvedimenti emergenziali di derogare ad alcune regole della L. 81/2017, prima tra tutte l’obbligo dell’accordo scritto, sostituibile con provvedimenti unilaterali del datore di lavoro. Possibilità da ultimo confermata anche nel c.d. Milleproroghe 2021 (D.L. n. 183/2020) fino alla fine dello stato di emergenza, ad oggi “databile” 30 aprile 2021 (cfr. Art. 1, D.L. 2/2021).
Ma lo smart working, così declinato, continua ad essere più uno strumento anti-contagio che di ausilio alla crescita della competitività aziendale: lo confermano gli ultimi provvedimenti emergenziali dove, tra le misure di prevenzione del contagio, si trova anche la raccomandazione ai datori di lavoro di utilizzare il lavoro agile (cfr. Art. 5 comma 6 Dpcm 14 gennaio 2021).
Guardando ai prossimi mesi, le “regole della pandemia” non impediscono, però, alle aziende interessate ad accrescere efficienza e competitività di avviare un percorso più orientato al raggiungimento di obiettivi e ad una maggior responsabilizzazione dei dipendenti, coinvolgendo le diverse strutture aziendali (ad esempio Hr, It, Legal) in progetti finalizzati ad un cambio della cultura organizzativa aziendale.
In una battuta, usare i mesi dell’emergenza per innovare le policy e i regolamenti aziendali, anche di compensation&benefit, rendendo, ad esempio, per gli smart-worker gli incrementi di efficienza e di produttività indicatori a cui legare l’erogazione del premio di risultato. Indicatori di efficienza e produttività che potrebbe rendere più probabile il raggiungimento dei risultati incrementali che la Legge di Stabilità 2016 (L. 208/2015) pone come condizione per l’applicabilità del regime fiscale agevolativo ai premi di risultato, nonché per la convertibilità in beni e servizi welfare degli stessi.
Laddove, invece, vi fosse una maggior esigenza di migliorare il coordinamento delle risorse e la verifica dei risultati, i prossimi mesi potrebbero essere usati per verificare la compatibilità delle strumentazioni informatiche con i dettami dell’Art. 4 Statuto dei lavoratori e, nel caso, per modificare le policy sull’uso di tablet, pc, mail o cellulari, applicando i principi di liceità, necessità e proporzionalità del trattamento dei dati acquisiti, come raccomandato più volte dal
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In una battuta: guardare all’esperienza del più recente passato per costruire il futuro. In fondo, solo chi sta seduto, non cade mai.